Arte, impresa e cultura: il modello innovativo di Aiku

Fabrizio Panozzo, direttore di Aiku, promuove collaborazioni tra arte, impresa e cultura per favorire l’innovazione e la sostenibilità nelle aziende

Fabrizio Panozzo da alcuni anni è direttore scientifico di Aiku, centro dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove assieme a un team altamente specializzato crea reali e produttive occasioni di incontro tra arte, impresa e cultura come innesco creativo per immaginare nuove proposte di valore nel quadro di una transizione sostenibile. Abbiamo raggiunto il professore per conoscere meglio Aiku, i suoi progetti e le opportunità concrete che offre.


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Come ogni storia che si rispetti partiamo dall’inizio: cos’è, come è nato e cosa fa Aiku?

«L’Università Ca’ Foscari è una delle poche università dove si insegna economia e management dell’arte e della cultura; fin dalla fine del secolo scorso si è impegnata su ciò che allora era l’economia della cultura per studiare il modo in cui gli approcci manageriali ed economici potevano aiutare e comprendere meglio il fenomeno culturale, con un focus sul funzionamento dei musei, teatri e aspetti che associamo alle variabili culturali.

 

Aiku è un’attività di ricerca e azione che parte dall’Università Ca’ Foscari di Venezia circa una decina di anni fa. Quello che noi abbiamo cercato di fare con Aiku è chiederci quali sono gli aspetti culturali della produzione economica, e in che modo la produzione culturale, il lavoro degli artisti, dei direttori dei musei, dei progettisti, ha qualcosa da dire al mondo dell’impresa.

Abbiamo cominciato a realizzare contatti, da cui la definizione arte, impresa e cultura, sempre più intensi tra chi di mestiere fa produzione culturale, artisti, artiste, danzatrici, musicisti, e chi fa attività di impresa, manager, imprenditore, di qualunque tipo.

Fino a qualche anno si diceva che con la cultura non si mangia, ora si vede nella cultura uno dei principali vettori di competitività del paese. Gestendo un grande progetto Pnrr (iNest Spoke 6) mi sono reso conto che la cultura non è più una questione da addetti ai lavori, ma un fenomeno che si insinua e si interseca con molte altre espressioni dell’economia, prima fra tutte il turismo. Il modo in cui noi raccontiamo la nostra più grande industria del paese è culturale.

Aiku non è interessa alla superficiale “bellezza”, dell’artefatto, del prodotto da ammirare o da vendere sia esso quadro, monumento o opera lirica, ma desidera lavorare sui processi, vuole vedere in che modo, mentre facciamo cultura e arte, è possibile dialogare con l’economia. Il tradizionale rapporto tra arte e impresa è quello della sponsorizzazione o del collezionismo di artefatti belli; è un rapporto che funziona, ma, proprio perché funziona da secoli, è vecchio.

ITALIA ECONOMY - Arte, impresa e cultura: il modello innovativo di Aiku

Cosa deve fare un’impresa contemporanea interessata alla cultura?

Oggi l’impresa si interessa al lavoro degli artisti mentre fanno cultura, perché lavorare con artisti e artiste mentre lavorano vuol dire prendere una serie di spunti, sollecitazioni e stimoli che dipendono dal guardare lavorare quell’invenzione/attività creativa. Lì ci sono stimoli importanti per l’impresa, non occorre comprare il lavoro finito, ma è indispensabile studiare l’interazione nel suo complesso.

Per farlo, ad esempio, ci siamo inventati il meccanismo delle residenze artistiche in azienda: creiamo occasioni in cui selezioniamo imprese interessanti e artisti curiosi, li mettiamo in contatto in maniera tale che lavorino insieme per un periodo limitato di tempo, li aiutiamo a creare una conoscenza reciproca e ad abbattere gli stereotipi.

Il valore nell’arte sta nel creare il dubbio rispetto a ciò che è bello e fa riflettere quanto il lavoro artistico serva più a produrre domande che a dare risposte.

La bellezza è una risposta.

 È più interessante il percorso dell’artista per arrivare a quell’esito, che il frutto del lavoro. Un’altra cosa su cui puntiamo molto è far capire all’imprenditore che fare cultura è un lavoro, un lavoro che va pagato. Fatto da professionisti. L’impresa deve imparare che gli artisti sono professionisti che hanno qualcosa da dare e per questo devono venire pagati.

Invece, purtroppo, si scambia troppo spesso la passione dell’artista o del creativo per un hobby che si può anche non pagare, o pagare poco».

Dalla sua esperienza sul campo, la risposta dell’imprenditore è positiva?

«Il lavoro di Aiku così come appena descritto non è didattica convenzionale, non è ricerca, è un lavoro di impatto, parliamo direttamente agli utilizzatori finali.

Quindi c’è una dimensione pedagogica complessa perché non si svolge in aula, ma con la pratica; una dimensione pedagogica nuova in cui il soggetto da educare è, in questo caso, l’impresa. E quelle forme di educazione non si fanno con i tempi e gli spazi canonici.

Quindi, per rispondere, questo lavoro pedagogico a lungo termine qualche risultato inizia a darlo. Un po’ perché riusciamo a portare i finanziamenti per sperimentarlo, e con la ricerca portiamo esiti e utilità.

Un po’ perché il discorso diventa sempre più penetrante e diffuso, e un po’ perché cambia anche la classe imprenditoriale. Alcuni manager avevano già intravisto il valore dell’arte nell’impresa, ma sono rimasti prigionieri dell’aula.

Quando fai vedere all’imprenditore che l’artista ha una attività professionale, ha un’idea, un budget, pianifica il tempo e ha un mercato, capisce che ha di fronte un altro imprenditore. Quando si abbatte questa barriera della separazione artista/ imprenditore e i due mondi iniziano a mescolarsi, si comincia ad andare in una direzione di contaminazione».

Può raccontarci nel concreto un progetto/collaborazione a cui è più affezionato?

«Uno dei nostri primi interventi, sette anni fa circa, nella zona dello Sportsystem di Montebelluna: abbiamo mandato un collettivo di artisti a dialogare con i principali brand del settore.

Raffaella Rivi, l’artista che ha realizzato l’intervento, ha reinterpretato l’idea di storytelling aziendale in quattro installazioni multimediali ispirate ad altrettanti brand, posizionando così la loro identità nel contesto dell’arte “contemporanea”. Il risultato furono quattro installazioni, opere d’arte che abbiamo portato in mostra nel museo della calzatura di Montebelluna.

Quattro modi diversi di parlare di quelle aziende in forma artistica.

Ad esempio, abbiamo affidato il Moon Boot, marchio iconico di Tecnica, a una videoartista e a una poetessa. La videoartista ha concepito un video ispirato alla Luna, perché il fondatore racconta che l’idea gli è venuta in mente quando nel ’69 ha visto l’atterraggio dell’Apollo nella Luna; quindi, il video ha immagini lunari e la poetessa ha scritto una poesia su questo video e su questo artefatto.

La poesia veniva attivata da un QR code posizionato all’interno del Moon Boot che doveva venire capovolto e appoggiato sul lettore ORACOLO e ascoltato tramite cuffie. Sono stati utilizzati stili e linguaggi dell’arte contemporanea senza volontà di vendere il prodotto, ma il prodotto stimola il pensiero artistico».

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Anna Fogarolo
Copywriter, scrittrice, esperta comunicazione digitale

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