Finanziare una start up non basta: senza un mercato pronto, anche l’idea più brillante è destinata a fallire. Next4 aiuta le giovani imprese a validare il proprio modello di business prima di cercare investimenti, trasformando intuizioni in aziende scalabili
Nel mondo delle start up, avere un’idea brillante non basta: servono competenze, accesso al mercato e capitali. Next4, venture capital specializzato nella digital transformation, nasce proprio per colmare questa distanza, coprendo il cosiddetto “ultimo miglio” tra finanza e innovazione. Con un approccio che va oltre il semplice investimento, l’azienda aiuta le start up a validare il proprio mercato prima ancora di pensare ai finanziamenti: in questo modo, non si limita a investire, ma crea le condizioni per trasformare un’intuizione innovativa in un’azienda scalabile.
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Un approccio che fa la differenza: perché senza un mercato pronto, anche il miglior prodotto è destinato a fallire. Ma quali sono gli ostacoli più grandi per chi vuole innovare oggi in Italia? E come si crea un ecosistema in grado di superare queste barriere? Ne abbiamo parlato con Roberto Macina, Managing Director & Board Member di Next4, che ci ha fornito anche una visione strategica dei settori e dei trend tecnologici più promettenti per il prossimo futuro.
Oggi molte start up nascono con idee brillanti, ma faticano a trovare un modello di business sostenibile. Qual è il più grande ostacolo per una start up che vuole accedere ai capitali? Come Next4 le aiuta a passare dall’idea alla scalabilità?
«Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, oggi la sfida più grande per una start up non è tanto ottenere finanziamenti, quanto capire se esiste un mercato pronto ad accogliere il proprio servizio o prodotto. Molte start up falliscono perché non c’è un vero need di mercato, perché il mercato non è ancora pronto, il timing è sbagliato o operano nel paese errato.
Il metodo che noi applichiamo, il valore aggiunto di Next4, parte proprio da qui: prima di fornire capitale, valutiamo attentamente il contesto e il potenziale di mercato. Prima della finanza, che è uno strumento e non l’obiettivo, viene il mercato. Non siamo un investitore passivo, ma lavoriamo per creare un mercato per le start up in cui investiamo.
A quel punto, la finanza diventa un acceleratore di crescita, non un’ancora di salvezza per garantire la sopravvivenza. In Italia, fare innovazione è una sfida ancora più complessa perché il mercato interno è limitato, all’inizio tende a essere poco ricettivo, e spesso le start up non riescono a posizionarsi con il giusto angolo di attacco».
Quali caratteristiche deve avere un progetto per attirare l’interesse di Next4 e ottenere un investimento seed?
«Per noi è fondamentale che il progetto abbia un asset tecnologico scalabile. Operiamo nel venture capital, cerchiamo start up che magari partano anche da una nicchia di mercato ma che, grazie a un go-to-market più veloce, possano poi espandersi orizzontalmente.
La focalizzazione iniziale è essenziale per crescere rapidamente. Next4 guarda a tutto ciò che è digital transformation. Abbiamo tre focus verticali di riferimento: digital health, cybersecurity e IA, soprattutto applicata all’ambito salute. Ma più in generale, esploriamo qualsiasi tendenza innovativa con potenziale».
Next4 crede nelle tecnologie disruptive. Quali ritiene saranno i trend più dirompenti nei prossimi cinque anni?
«Oggi l’IA è sulla bocca di tutti, ma a mio parere non ha ancora sviluppato il suo vero potenziale. L’IA esiste da oltre vent’anni, ma oggi, grazie all’ambito specifico dell’intelligenza artificiale generativa, è arrivata al consumatore e se ne parla molto di più.
Tuttavia, la maggior parte dei modelli di linguaggio (LLM) è di proprietà di terzi. Più si andrà avanti, più assisteremo allo sviluppo di linguaggi diversi, iperverticali per ambiti specifici, come il legal. Un altro trend chiave sarà la Silver Economy: la generazione che sta invecchiando oggi è composta da persone abituate al digitale. Questo creerà nuove opportunità per start up che sviluppano servizi su misura per questa fascia d’età».
Parliamo allora nello specifico di digital health, un ambito che è ovviamente legato alla Silver Economy. Quali sono le sfide principali e quali tendenze osservate?
«Nel settore del digital health osserviamo una chiara biforcazione. Da un lato, ci sono servizi ad alto livello legati alla cura della persona. Parliamo, ad esempio, di piattaforme che facilitano la prenotazione di visite mediche, di intelligenza artificiale applicata alla personalizzazione di prodotti – con l’IA, ti produco una crema fatta su misura per te, in base alle tue caratteristiche – o di servizi di supporto psicologico online.
Si tratta di un ambito in continua espansione, con soluzioni sempre più accessibili e immediate. Dall’altro lato, c’è tutta un’area che è, secondo me, di enorme valore per l’Italia, dove il nostro paese può davvero fare la differenza: lo sterminato patrimonio di scoperte universitarie che spesso restano confinate al mondo accademico per mancanza di un adeguato trasferimento tecnologico.
Il problema principale è l’assenza di soggetti che accompagnino questi brevetti fino al mercato, trasformandoli in aziende capaci di crescere. Investire in questa direzione significa accelerare lo sviluppo di soluzioni più “deep” nel digital health, come nuove cure e invenzioni rivoluzionarie».
Qualche esempio concreto?
«Recentemente sono stato a Bergamo, in un reparto di biomedicina dove si lavora su tecnologie che sembrano quasi fantascientifiche: stanno sperimentando la stampa di pelle per la rigenerazione dei tessuti ustionati. E qui emerge un aspetto chiave: molte innovazioni nate per il settore medico possono trovare applicazioni anche in altri mercati.
Quella stessa tecnologia, ad esempio, trova un campo di applicabilità nell’ambito della rimozione dei tatuaggi, un settore con una domanda in forte crescita. Il digital health, quindi, non riguarda solo la scoperta di nuove terapie farmacologiche – che restano appannaggio del mercato farmaceutico e delle grandi aziende del settore – ma anche l’implementazione di soluzioni scalabili nel breve periodo.
È qui che il venture capital può giocare un ruolo decisivo: puntare su innovazioni che uniscono ricerca scientifica e applicabilità concreta, accelerando il passaggio dal laboratorio al mercato con un orizzonte temporale di 5-10 anni».
Qual è il più grande vantaggio competitivo delle start up italiane a livello internazionale? E il più grande limite?
«Il vantaggio è la creatività e la praticità dei fondatori italiani. Il limite? Il mercato europeo frammentato. Molti commettono l’errore di confrontarsi con gli Stati Uniti, ma il paragone è sbagliato: un Founder americano ha accesso a un mercato unico ed enorme, mentre un italiano si trova a scalare tra paesi con lingue e regolamentazioni diverse.
Il consiglio è partire dal proprio mercato di riferimento, dall’environment che si conosce, ma pensare il progetto già in ottica internazionale. Spostarsi è fondamentale. La start up rimane italiana, ma se si vuole crescere ed essere veramente competitivi ci vuole l’ambiente giusto, che al momento purtroppo non è l’Europa. La Spagna rappresenta un esempio significativo in questo senso: le start up spagnole nascono puntando subito al Sud America, perché la comunanza di lingua, cultura e abitudini con i paesi latinoamericani accelera la crescita».
Avete programmi di technology transfer dall’estero all’Italia? C’è una tecnologia o un modello di business che avete importato e che sta dando risultati concreti?
«Next4 sta evolvendo in una holding che crea fondi verticali per il technology transfer. Un esempio è la collaborazione con il Campus Biomedico di Roma, con la prossima creazione del fondo Terra Vita che investirà in digital health. L’obiettivo è trasformare brevetti ad alto potenziale in aziende di successo».
Se un giovane innovatore avesse una grande idea ma non sapesse da dove iniziare, quale sarebbe il primo consiglio che gli darebbe?
«Il primo consiglio che darei a un giovane che vuole innovare è trovare dei Co-founder. Nessuna impresa nasce e cresce da sola, eppure spesso sembra la sfida più difficile. Molti si dimenticano che oltre al computer esiste anche il mondo reale: partecipare a eventi, contattare persone su LinkedIn, creare connessioni è fondamentale.
I Co-founder non devono essere amici, parenti o partner, ma persone con competenze complementari. Questo perché, anche se nel percorso di una start up si sviluppano molte soft skill, avere una visione diversificata del problema fin dall’inizio fa la differenza. Il secondo consiglio è non crearsi l’alibi dei soldi. Oggi esistono innumerevoli strumenti per compiere i primi passi senza capitali iniziali. Il segreto è scomporre il problema e il ciclo di vita di una start up in step più piccoli, affrontando una sfida alla volta. Non serve scalare da subito, ma validare.
È il mio mantra: validare l’idea il prima possibile, anche su carta, per capire se risponde a un reale bisogno di mercato. Spesso, infatti, ci si innamora di un’idea senza verificare se il problema che si vuole risolvere esista davvero. Invece, bisogna partire dal bisogno: è il bisogno a suggerire quale idea sviluppare. Infine, occorre essere pronti a cambiare. Il 99 per cento delle volte l’idea iniziale si trasforma lungo il percorso, ed è giusto così.
Significa che stai creando qualcosa di realmente utile e con un mercato pronto ad accoglierlo. Innovare non è rimanere ancorati alla propria idea, ma avere la capacità di adattarla continuamente alle necessità reali».