Con il libro L’occhio della tigre, il presidente del Club degli Investitori Giancarlo Rocchietti fornisce consigli per cambiare l’Italia
«L’idea del libro e il titolo esistono da più di un anno e mezzo. Bisognava scriverlo. L’estate scorsa ho avuto una pausa forzata e mi sono preso il tempo necessario per completarlo». Giancarlo Rocchietti, presidente del Club degli Investitori, racconta così la nascita de L’occhio della tigre. Startup, imprenditori coraggiosi e investitori lungimiranti per cambiare l’Italia (Edizioni Egea).
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Anche se la molla è leggermente precedente: «Tutto nasce da una chiacchierata con mia figlia Laura, che mi ha giustamente ricordato che quelli come me, i baby boomer, hanno contribuito a rendere il mondo un posto peggiore. Forse non ha torto, ma è anche vero che oggi si sta verificando un passaggio enorme di ricchezza dalla mia generazione alla Generazione Z.
Abbiamo lasciato nuovi strumenti per finanziare idee e progetti e le nuove tecnologie sono degli acceleratori formidabili. Ebbene, anche grazie a quanto fatto dai baby boomer negli anni ’50 e ’60, i giovani oggi hanno a disposizione soldi e tecnologie su cui lavorare per cambiare il mondo in meglio».
Come sfruttare al meglio queste potenzialità? Come creare e sostenere start up di successo e contribuire così a creare valore? Il libro di Rocchietti prova a fornire alcune risposte, basate sull’esperienza accumulata prima come founder e imprenditore, quindi come investitore e business angel.
Rispetto a quando lei ha iniziato la sua carriera da imprenditore, come è cambiata la scena?
«Credo che fino alla fine degli anni Novanta non ci siano stati grandi cambiamenti, poi negli ultimi due decenni ci sono state grandissime trasformazioni. Ai miei tempi, l’unico strumento di finanziamento era il debito bancario, oggi ci sono fondi di venture, investitori, business angel.
Con il digitale aumentano le potenzialità, ma anche le sfide, alle start up si chiede di crescere molto di più e molto più velocemente. Oggi, se un’azienda che dura dieci anni è già molto, poi arriva il momento dell’exit. Ai miei tempi, le aziende duravano alcune generazioni.
Quello che è però il cambiamento più interessante è che si sono assottigliati i confini tra manager, imprenditore e investitore: magari una persona inizia in un’azienda, poi lancia la sua start up come founder, poi la vende e decide di investire in altre start up. Questo permette di avere una visione complessiva dell’ecosistema imprenditoriale».
Nel libro, indica le domande da fare ai founder per valutare la bontà della loro idea. Come si trova l’occhio della tigre?
«Non è facile fare il business angel o il venture capitalist, si lavora con il cervello e con la pancia. Dai primi incontri non emergono tutte le qualità della persona, è come trovarsi davanti un iceberg, ci vuole tempo per scoprire cosa c’è sotto.
Quello che cerco nei founder è quella che definisco l’antifragilità, che è qualcosa di più articolato dell’adattabilità. Di solito la scopri quando emergono le prime difficoltà: lì ti rendi conto se ha capito i problemi del suo prodotto e come può superarli.
Un altro elemento importante è non avere fretta, ci sono prodotti degni di nota che non crescono per forza rapidamente. Come angel investor, credo sia importante saper dare il giusto tempo a ogni prodotto e accompagnarlo finché serve».
E lato founder, che consigli si sente di dare?
«Il consiglio principale è di stare attento a chi gli dà i soldi. Cosa chiede in cambio? In che tempi? È vero che l’investitore deve saper scegliere le giuste start up su cui scommettere, ma anche l’imprenditore deve saper scegliere il miglior investitore, che non è sempre quello che offre più soldi».
Oltre a fornire consigli a founder e investitori, rivolge anche uno sguardo al sistema Italia. A che punto siamo?
«Al momento abbiamo quattro unicorni e devo dire che è una bella soddisfazione. L’ultimo a entrare nel club è stato Bending Spoons, che non annovero nel libro, perché era già andato in stampa quando è successo ed è un’ottima notizia, anche perché è successo in un momento particolarmente difficile. Bisogna però dire che abbiamo quattro unicorni su più di 16mila start up, meno di uno ogni mille. C’è ancora parecchia strada da fare».
L’ultimo paragrafo si intitola “L’Italia può diventare una start up nation? No, ma…”. Cosa c’è dietro quel ma?
«Ho girato parecchio in questi anni e ho visto diverse realtà in Europa, in Silicon Valley, a Israele. Mettendo insieme quello che ho imparato, credo per fare dell’Italia una start up economy l’unica strada sia un forte commitment da parte della politica.
Un po’ sul modello della Francia di Macron. Non si tratta di dare soldi, ma svolgere un ruolo di moralsuasion nei confronti del mondo dell’imprenditorialità e della finanza, in modo da incentivare investimenti in innovazione. Bisognerebbe spingere sulle banche affinché convincano i clienti a investire sull’Italia e sull’innovazione.
Mi lascia forti dubbi il fatto che il Governo investa nelle start up attraverso Cassa Depositi e Prestiti i soldi dei cittadini, mi sembra molto più interessante la costituzione della rete di acceleratori CDP. Nel libro parlo di un’Agenzia Nazionale per le Start up, con forte commitment della Presidenza del Consiglio, come in Francia appunto.
E poi, un altro punto fondamentale sarebbe rendere obbligatori in tutte le università dei corsi di entrepreneurship. In tutte le facoltà, perché non è necessario aver fatto ingegneria o economia per diventare imprenditori, anche da psicologia o filosofia possono uscire idee per start up innovative. È fondamentale aiutare i giovani a capire cosa vuol dire fare start up».

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