Davide D’Arcangelo, Innovation Policy Maker e presidente di Next4, racconta la nascita dell’Investor Business Relator, una nuova figura strategica per l’innovazione e la competitività del sistema produttivo italiano
Il futuro dell’impresa passa da storytelling, strategia e capitale umano. In un contesto segnato da transizioni profonde – digitale, tecnologica, industriale – le piccole e medie imprese italiane si trovano a dover ridefinire il proprio rapporto con il mondo della finanza ed è proprio nel mezzo di questa relazione, tra impresa e investitori, che nasce una nuova figura destinata a cambiare le regole del gioco : l’Investor Business Relator. Non un semplice consulente finanziario, né un tradizionale investor relator, ma un professionista a tutto tondo che unisce visione, relazione e capacità di costruire valore lungo tutta la catena dell’innovazione. Per saperne di più, abbiamo chiesto a Davide D’Arcangelo, Innovation Policy Maker e presidente di Next4, chi è l’IBR e come può diventare una leva strategica per trasformare il tessuto produttivo italiano.
L’IBR è definito come un “interprete simultaneo” tra impresa e investitori. Quali cambiamenti del mercato hanno reso necessaria la nascita, oggi, di questa figura?
«Fino a qualche anno fa bastava avere un buon business e magari un CFO solido per gestire i rapporti con la finanza. Oggi non è più così: il mercato è diventato molto più complesso, competitivo, interconnesso. La finanza non è più solo “contabilità e bilanci”, ma anche narrazione strategica, reputazione, sostenibilità, governance e visione. E gli investitori, oggi, non si accontentano dei numeri: vogliono capire chi sei, dove vuoi andare, come pensi di stare sul mercato tra cinque o dieci anni. Il punto è questo: siamo entrati in una fase in cui comunicare valore è diventato tanto importante quanto generarlo. Qui nasce l’esigenza dell’ Investor Business Relator – non un semplice “relatore finanziario”, ma un vero e proprio ponte tra il mondo dell’impresa e quello degli investitori. Una figura che sa parlare entrambe le lingue e – soprattutto – sa tradurre cultura d’impresa in attrattività finanziaria.

Pensiamo al contesto post-pandemico, all’accelerazione della digitalizzazione, alla spinta verso la sostenibilità e all’introduzione di nuove normative come il Decreto Capitali: tutto questo ha reso chiaro che serviva un profilo nuovo, capace di gestire questo dialogo evoluto. Anche perché le PMI, che rappresentano il cuore produttivo del nostro Paese, spesso hanno grande valore, ma faticano a comunicarlo. L’IBR nasce per colmare proprio questo gap: posizionare correttamente l’impresa nel mercato dei capitali, anche quando non è ancora quotata, e renderla visibile, leggibile e interessante per chi vuole investirci. È, in fondo, una risposta strategica alla necessità di rigenerare il rapporto tra finanza e impresa, ed è anche un modo per aiutare le aziende a non subire i cambiamenti del mercato, ma a cavalcarli».
Quali sono le principali criticità che le imprese italiane, in particolare le PMI, devono affrontare nel loro rapporto con il mondo della finanza?
«La verità è che oggi il mondo della finanza è molto più accessibile… ma non per tutti. Le imprese italiane, soprattutto le PMI, si trovano davanti a un paradosso: ci sono più strumenti che mai per crescere, ma spesso non si hanno le chiavi giuste per aprire quelle porte. Il primo ostacolo? La cultura. Troppe imprese continuano a vivere la finanza come un obbligo da affrontare solo quando serve un prestito o si presenta un’occasione straordinaria. Ma la finanza, oggi, è una leva strategica − e come ogni leva, bisogna saperla maneggiare. Basti pensare che solo il 2 per cento delle PMI italiane accede ai mercati dei capitali, nonostante l’introduzione di strumenti ad hoc come i minibond o gli incentivi alla quotazione. Nel primo semestre del 2024, il numero di nuove emissioni di minibond è calato del 33 per cento rispetto all’anno precedente. Questo ci dice che la diffidenza – o forse la mancanza di preparazione – è ancora forte.
Il secondo problema riguarda la comunicazione. Non basta avere una buona azienda: bisogna saperla raccontare, in modo coerente e credibile, a chi vuole investirci. E qui si apre un vuoto enorme: poche imprese hanno strutture dedicate alle investor relations, e ancora meno riescono a sviluppare un dialogo costante con il mercato. Risultato? Le opportunità passano, ma non vengono intercettate.
C’è poi il tema dell’accesso al credito, che resta complicato. Alla fine del 2024, i prestiti bancari alle imprese italiane erano scesi del 2,4 per cento su base annua. Le banche sono sempre più selettive e, senza solidi presidi finanziari – governance, trasparenza, strategie chiare –, ottenere fiducia è difficile. E attenzione: i mercati si stanno muovendo. Dal 2025, l’obbligo di rendicontazione ESG coinvolgerà anche le PMI quotate. È un cambiamento profondo, che richiede competenze nuove, capacità di lettura dei dati, consapevolezza degli impatti sociali e ambientali. Non si tratta più solo di numeri, ma di visione, e chi non si attrezza rischia di restare ai margini.
Infine, c’è un nodo più strutturale: la dimensione. Le piccole imprese rappresentano il 92 per cento del totale, ma il loro peso economico in termini di fatturato sta calando: dal 49 per cento del 2012, al 42 per cento nel 2022. Questo vuol dire che, nel confronto con i mercati e con i player internazionali, molte PMI partono svantaggiate. Ecco perché serve un cambio di passo. Non si tratta solo di trovare nuovi capitali, ma di imparare a dialogare con chi quei capitali può portarli. E qui figure come l’IBR possono fare davvero la differenza: perché aiutano l’impresa a essere compresa, a posizionarsi nel modo giusto e a costruire relazioni finanziarie solide e durature».
L’IBR è un professionista “a T”, ovvero con una base ampia di conoscenze orizzontali e una o più specializzazioni verticali da approfondire nel tempo. Quali competenze deve possedere e come si bilanciano hard e soft skill?
«La figura dell’ Investor Business Relator nasce proprio per colmare quel divario – sempre più evidente – tra il linguaggio dell’impresa e quello della finanza. Non è un caso che si parli di professionista “a T”: da una parte serve una base ampia, trasversale, che tocchi tutte le funzioni aziendali. Dall’altra, una o più competenze verticali su cui costruire autorevolezza e profondità. Le competenze hard sono la base di partenza: un IBR deve sapere leggere un bilancio, costruire una strategia finanziaria, comprendere scenari macro e microeconomici, modellare dati e performance. Non stiamo parlando di “contabilità”, ma di visione strategica dei numeri. Soprattutto oggi, con l’entrata in vigore delle normative ESG e CSRD, saper leggere e presentare dati non finanziari è diventato un requisito, non un’opzione. Da gennaio 2025, oltre 50mila imprese in Europa – comprese molte PMI italiane quotate – saranno obbligate a rendicontare in modo strutturato le proprie performance ambientali, sociali e di governance.
Ma le hard skill da sole non bastano, perché un IBR è prima di tutto un “traduttore strategico”. E qui entrano in gioco le soft skill: la capacità di negoziare, di costruire relazioni di fiducia con investitori, fondi e banche; la leadership, per guidare internamente processi anche complessi, coinvolgere le diverse funzioni aziendali e far parlare la stessa lingua; il pensiero sistemico, per leggere i segnali deboli, collegare i puntini e costruire una narrazione che tenga insieme performance, visione e impatto.
Un dato interessante: secondo un’analisi di LinkedIn pubblicata nel 2024, tra le dieci competenze più richieste per i professionisti nelle relazioni con gli investitori, sei sono soft skill. Al primo posto: comunicazione efficace; a seguire, leadership, empatia, pensiero critico, problem solving e capacità di sintesi strategica. Ecco perché chi vuole diventare IBR non può permettersi di essere “sbilanciato”: non basta essere esperti di numeri, né bastano doti relazionali. Un IBR efficace lavora sul doppio binario: analisi e relazione, metodo e intuito, precisione e visione.
Oggi, con un mercato che si muove alla velocità delle tecnologie, degli algoritmi e delle normative, quella “T” non è più una bella metafora: è una mappa. Una mappa per orientarsi, crescere e – soprattutto – guidare le imprese italiane verso un rapporto più maturo, strutturato e consapevole con il mondo della finanza. Perché il vero valore, oggi, non è solo quello che generi, ma quello che riesci a far percepire − e su questo l’ IBR diventa una leva strategica fondamentale ».
Quali sono oggi i segmenti di impresa che più possono beneficiare dell’azione di un IBR?
«La risposta più semplice sarebbe “tutte le imprese che vogliono crescere in modo solido e dialogare con il mercato dei capitali”. Ma se vogliamo entrare un po’ più nel merito, oggi ci sono segmenti che stanno vivendo una fase di transizione così profonda che la presenza di un Investor Business Relator non è solo utile, è quasi necessaria. Pensiamo, per esempio, alle PMI innovative, alle imprese che si affacciano per la prima volta al mondo del private equity, a quelle che vogliono rafforzare la propria governance per attrarre investitori istituzionali, o che si preparano alla quotazione. Il valore dell’impresa, oggi, non è più definito solo dai fondamentali economici, è determinato dalla sua capacità di essere leggibile, affidabile e posizionata nel modo giusto nel contesto in cui opera.
Le imprese che stanno lavorando su operazioni straordinarie – fusioni, acquisizioni, spin-off – sono tra le più esposte. In questi casi, l’IBR agisce come figura ponte: garantisce coerenza tra la narrazione economico-finanziaria e le reali potenzialità dell’impresa, riduce l’asimmetria informativa e gestisce la comunicazione in modo strategico. Anche le aziende che partecipano a bandi europei, che richiedono rendicontazioni ESG o impatti misurabili, trovano in un IBR una risorsa preziosa, perché questa figura lavora proprio all’intersezione tra dati, impatto, trasparenza e governance. E poi ci sono le imprese familiari di seconda o terza generazione, che si trovano davanti alla sfida di aprirsi al mercato mantenendo identità e visione. In questi contesti, l’IBR aiuta a costruire un linguaggio comune tra l’impresa e chi la osserva da fuori – che si tratti di fondi, banche, stakeholder o nuovi soci. È un ruolo delicato, perché non si tratta solo di raccontare l’impresa, ma di posizionarla con coerenza e lungimiranza.
In fondo, le imprese che possono beneficiare dell’IBR sono tutte quelle che non solo si chiedono “quanto valiamo?”, ma anche “come possiamo far percepire il nostro valore?”. Perché oggi il tema non è solo attrarre capitale, ma attrarre il capitale giusto, al momento giusto, con una narrazione solida e una governance all’altezza. Ed è lì che l’IBR diventa un abilitatore».
Quanto conta oggi la capacità di storytelling finanziario nella costruzione del valore percepito di un’impresa innovativa?
«In un mondo dove le start up e le PMI innovative vivono scambi rapidi e capitale selettivo, la capacità di trasformare dati e numeri in una storia chiara, convincente e strategica è diventata imprescindibile. Non si tratta solo di presentare un bilancio, ma di costruire senso, identità, visione. Lo storytelling finanziario è il tessuto connettivo che tiene insieme performance, prospettive e posizionamento − e questo vale ancora di più per le imprese innovative, che spesso operano su modelli di business non lineari o in fase pre-revenue. Qui il valore percepito è tutto: è ciò che attira i capitali, abilita partnership, orienta le policy pubbliche e genera fiducia nel lungo periodo. Il valore reale dell’impresa, oggi, è una sintesi tra numeri e narrazione, tra fatti e interpretazione. E la capacità di raccontare l’impresa è ciò che consente all’IBR di ridurre “l’asimmetria informativa” e di amplificare la reputazione dell’organizzazione.
I dati lo confermano: secondo uno studio McKinsey, le imprese che sanno integrare storytelling strategico nei propri investor briefing generano un engagement fino al 30 per cento superiore tra gli investitori istituzionali rispetto a quelle che si limitano alla comunicazione tabellare. E le narrazioni fondate sui dati – ciò che oggi chiamiamo data-driven storytelling – sono ricordate 22 volte più facilmente rispetto a una presentazione di soli numeri. Questo perché chi investe non compra solo performance, ma visione e coerenza di esecuzione. Ecco allora che l’IBR diventa cruciale. Lo storytelling finanziario efficace è quello che riesce a costruire reputazione prima ancora del valore tangibile. È ciò che fa la differenza tra essere visti come una promessa o come un’opportunità concreta.
Patagonia, l’azienda americana di abbigliamento outdoor, è un caso emblematico: non parliamo di una start up, ma di un’impresa che ha saputo trasformare il proprio posizionamento sostenibile in valore finanziario tangibile. Nel momento in cui ha comunicato la decisione di trasferire il 100 per cento della proprietà a un trust che reinveste i profitti nella difesa dell’ambiente, non solo ha generato un’ondata di attenzione mediatica globale, ma ha anche rafforzato il proprio rapporto con investitori e stakeholder, consolidando valore reputazionale e sostenibilità di lungo periodo. Quel gesto era storytelling finanziario: un racconto in cui la governance, la visione e i flussi economici erano perfettamente allineati. Per le imprese italiane – soprattutto quelle innovative, spesso ancora poco visibili ai grandi capitali – è una lezione fondamentale. Perché oggi il tema non è solo “quanto vali”, ma “come lo racconti, a chi, e con quale coerenza”. Ecco perché lo storytelling finanziario diventa uno strumento per costruire valore reale − e chi, come l’IBR, sa maneggiarlo bene, diventa una risorsa chiave per l’impresa».
Può l’IBR diventare una leva strategica per rafforzare la competitività del sistema Italia?
«Assolutamente sì, l’IBR può e deve diventare una leva strategica per rafforzare la competitività del sistema Italia. Non è solo una nuova figura professionale: è un cambio di paradigma. È la traduzione operativa di un’urgenza che ci riguarda tutti − imprese, istituzioni, territori −, cioè quella di rendere visibile, leggibile e attrattivo il valore che spesso rimane nascosto dentro le nostre aziende. Oggi, infatti, la competitività di un Paese si gioca anche − e soprattutto − sulla capacità del suo tessuto imprenditoriale di accedere al capitale, e questo accesso non dipende solo da performance o bilanci: dipende da come l’impresa riesce a raccontarsi, a posizionarsi, a comunicare una visione. È qui che entra in campo l’IBR: come figura che unisce visione strategica, lettura dei dati, capacità relazionale e una cultura economico-finanziaria integrata, sistemica, orientata all’impatto.
Guardando ai numeri, il contesto è chiaro: nel 2023 l’Italia ha attratto circa 18,2 miliardi di dollari di investimenti esteri diretti, in netto calo rispetto ai 32,1 miliardi del 2022. Non è solo una questione congiunturale: è anche un segnale che il sistema Paese fatica ancora a presentarsi in modo convincente al capitale internazionale. Spesso gli investitori esteri segnalano difficoltà nel leggere la governance, nel comprendere la solidità dei modelli di business, nel valutare la coerenza delle strategie di crescita. L’IBR è esattamente il professionista che può colmare questo vuoto. Il calo delle emissioni di minibond da parte delle PMI italiane nel primo semestre del 2024 è un dato che parla da sé: gli strumenti ci sono, ma mancano le competenze per attivarli in modo efficace. L’IBR non è un tecnico dei numeri, ma un “traduttore strategico” che aiuta l’impresa a dotarsi degli strumenti culturali e operativi per interagire con un mondo finanziario sempre più selettivo e integrato.
Un altro segnale interessante arriva dal private equity: Milano è oggi tra le città più attive d’Europa, con deal per oltre 47 miliardi di euro registrati nel 2023 e grandi fondi internazionali come Ares e Point72 che stanno aprendo sedi operative in città. Questo dimostra che il capitale c’è, ma va intercettato con competenze adeguate e un racconto d’impresa coerente. Se oggi il sistema Italia vuole attrarre questi capitali in modo diffuso − non solo verso i soliti noti −, servono figure come l’IBR all’interno delle filiere, dei distretti, dei territori.
I casi virtuosi non mancano: Zegna è un esempio già noto. Un’impresa familiare che ha saputo strutturare il proprio racconto finanziario con una regia da manuale, arrivando alla quotazione a New York attraverso una SPAC, con una valutazione iniziale stimata tra 2,4 e 3,2 miliardi di dollari. Ma guardiamo anche alle scale-up: un caso emblematico è Satispay. Nata come start up fintech italiana, ha saputo costruire nel tempo una narrazione finanziaria chiara, coerente e allineata agli obiettivi di scalabilità. Questo le ha permesso, nel 2022, di chiudere un round di Serie D da 320 milioni di euro, raggiungendo lo status di unicorno e attirando investitori globali come Coatue, Lightrock e Tencent. Il punto non è solo quanto vale Satispay oggi, ma come ha saputo raccontare la propria traiettoria di crescita, il proprio modello di business e la propria visione nel tempo. È esattamente il tipo di storytelling strategico e sistemico che un IBR può accompagnare e rendere replicabile anche per altre realtà.
Se vogliamo che il sistema Italia non si limiti a “resistere”, ma torni a competere, servono nuove competenze e una nuova generazione di interpreti capaci di far emergere tutto quel valore che oggi è invisibile solo perché non viene raccontato nel modo giusto. L’IBR può essere quella figura chiave, quel facilitatore strategico, quella leva sistemica che connette le imprese italiane con il mondo e il mondo con le imprese italiane ».